Ne ho già parlato nella trentesima puntata “Grazie all’amore” di Tenero Gheriglio, e l’ho riportato in alcune citazioni qui. Ma dell’amore raccontato nella biografia di Ludwig Wittgenstein scritta da Ray Monk ho ancora alcuni passaggi meravigliosi da trascrivere.
Vi avevo già nominato Francis (Skinner) e Ben (Richards); trovo magnifiche le loro relazioni con Wittgenstein, non senza difetti, ma deliziose.
Partirei con Francis Skinner.
(Purtroppo si sa che Wittgenstein si è disfatto di tutte le sue lettere indirizzate a Francis, ma abbiamo quelle di Francis e alcuni pensieri dal diario di Ludwig.)
Durante le vacanze natalizie del 1933 Skinner scrisse a Wittgenstein quasi tutti i giorni per dirgli quanto gli mancasse, quanto spesso lo pensasse e quanto ardesse dal desiderio di rivederlo. Ricordava inoltre con emozione gli ultimi momenti trascorsi assieme:
Appena finito di agitare il mio fazzoletto per salutarti sono andato a fare una passeggiata per Folkstone e ho preso il treno delle 8.28 per rientrare a Londra. Ho pensato a te e a com’era stato meraviglioso quando ci siamo detti arrivederci. […] Mi ha fatto molto piacere venirti a salutare al treno. Mi manchi enormemente e ti penso sempre.
Con amore, Francis
Wittgenstein era diventato necessario a Francis: lontano da lui tutto perdeva valore. Gli scrisse nel corso delle vacanze pasquali: “Se sono con te posso sentire tutto profondamente.” Si trattava del resto di un tema ricorrente nel suo epistolario:
Ti ho pensato tanto. Ardevo dall’averti vicino. La notte era meravigliosa e le stelle splendevano particolarmente. Volevo a tutti i costi sentire le cose nello stesso modo in cui le avrei sentite se fossi stato con te.
Vorrei essere con te all’aria libera. Penso sempre a te e a quanto erano meravigliose le nostre passeggiate. Attendo enormemente il nostro giro la prossima settimana. Ieri ho ricevuto la tua cartolina pasquale che era molto bellina. Ho pensato che le case lungo la via nell’altra cartolina erano veramente meravigliose. Avrei voluto guardarle assieme a te.
Nelle lettere, Skinner, sottolinea anche la necessità morale di avere Wittgenstein accanto a sé, quasi che senza la sua guida temesse di cadere nelle mani del demonio.
Ciò che più avrebbe desiderato era vivere e lavorare con Wittgenstein, ma era proprio quello che Wittgenstein gli aveva negato. Francis non aveva una concezione weiningeriana dell’amore; non credeva che l’amore esigesse separazione e lontananza per conservarsi. Wittgenstein, invece, sembrava ancor condividere il punto di vista di Weininger. In Norvegia scrisse sul suo diario di capire sino in fondo quanto Francis fosse unico e di apprezzarlo realmente solo quando era lontano: si può pertanto ipotizzare che decise di stabilirsi in Norvegia proprio per fuggire da lui.
[…] Fu nel corso di una di queste visite che Wittgenstein si recò da Kirk in preda a grandissimo turbamento per comunicargli che Francis era stato colpito da poliomelite e ricoverato in ospedale. Pochi giorni dopo, l’11 ottobre, Francis morì. In un primo momento Wittgenstein mantenne un atteggiamento molto controllato. Nelle lettere agli amici per informarli della morte di Skinner, il tono è molto composto. Scrive per esempio a Hutt:
Caro Ro[w]land,
debbo darti una notizia veramente terribile. Francis s’è ammalato di poliomelite quattro giorni fa e ieri mattina è morto. È morto senza provare alcun dolore né dover lottare, in maniera del tutto tranquilla. Ero accanto a lui. Penso che abbia avuto una delle vite più felici tra le persone da me conosciute, e anche la morte più tranquilla. Ti auguro ogni bene.
Sempre tuo, Ludwig
Ma la “colpa” di cui Wittgenstein si sarebbe accusato nei confronti di Francis non aveva nulla a che fare con l’influsso esercitato su di lui. Riguardava questioni più intime; aveva a che fare coi sentimenti provati verso di lui nel corso degli ultimi due anni. Il 28 dicembre 1941, Wittgenstein scrisse nel suo diario:
Penso molto a Francis ma sempre con rimorso per la mia mancanza d’amore; non con gratitudine. La sua vita e la sua morte sembrano solo accusarmi, perché negli ultimi anni della sua vita sono stato spesso senza amore e infedele nei suoi confronti in cuor mio. Se non fosse stato così infinitamente dolce e fedele, avrei perso totalmente l’amore per lui.
Concluderei con Ben Richards.
Anche in amore, nonostante il grande bisogno che ne aveva, si sentì spesso incapace, timoroso. Timoroso, naturalmente, della perdita; sin troppo consapevole della caducità; impaurito dall’incertezza. Nel 1946 s’innamorò di Ben Richards, studente di medicina a Cambridge; e forse fu anche un sollievo constatare che, dopo tutto, era ancora capace d’amare. Ben Richards possedeva le qualità che intenerivano il cuore di Wittgenstein: incredibilmente mite, un po’ timido, forse sottomesso, ma anche estremamente gentile, rispettoso dell’altro, sensibile. Nella disperazione del mondo postbellico trovò motivo di consolazione nell’amore per Ben; anche se, nell’immediato, sembrò suscitargli solo maggiori preoccupazioni. Scriveva l’8 agosto 1946:
Sono molto triste, molto spesso triste. Mi sento come se adesso fosse la fine della mia vita. […] L’unica cosa che l’amore per B. mi ha fatto è questa: ha cacciato nel retroscena le restanti piccole preoccupazioni relative alla mia posizione e al mio lavoro.
Le pene d’amore erano forse le più difficili da sostenere. E Ben era giovanissimo; quasi quarant’anni più giovane. Il 12 agosto Wittgenstein si chiedeva se non era facile prevedere che Ben, con la crescita, avrebbe dimenticato il suo amore per lui “proprio come un adolescente dimentica i sentimenti di quand’era bambino”. Pochi giorni dopo, nell’impaziente attesa di una lettera di Ben, gli sembrò del tutto probabile, quasi naturale, che Ben l’avesse abbandonato. Ciò nondimeno, ogni mattina, quando continuava a non trovar lettere di Ben, avvertiva strane sensazioni: “Mi sento come se ci fosse qualcosa di cui non mi sono ancor reso conto; come se dovessi trovare un punto fermo dal quale scorgere la verità con più chiarezza.” I racconti di questi grandi tormenti nell’attesa della lettera dell’amato ci sono familiari: s’era verificata la stessa cosa con Pinsent, Skinner e persino Kirk. Ma, nell’amore per Ben, risuona un nota nuova: l’abbandono del solipsismo. Scrive il 14 agosto come se questa nota risuonasse in lui per la prima volta:
È il contrassegno del vero amore se si pensa alla sofferenza dell’altra persona. Poiché soffre è anche lui un povero diavolo.
Durante il trimestre autunnale del 1946, l’amore per Ben Richards regalò a Wittgenstein momenti di felicità e lunghi periodi di tormento. Scrisse l’8 ottobre: “Tutto è felicità. Non potrei ora scrivere così, se non avessi trascorso le due ultime settimane con B. E non avrei potuto trascorrerle così se una malattia o un qualsiasi incidente fosse intervenuto.” Una felicità fragile o almeno come tale avvertita. Scrisse il 22 ottobre:
In amore ho troppo poca fiducia e troppo poco coraggio. Sono facilmente ferito e ne ho timore, di essere ferito, e mettersi al riparo in questa maniera è la morte di ogni amore. Per il vero amore occorre coraggio. Ma questo vuol dire che bisogna anche avere il coraggio della separazione e della rinuncia, insomma il coraggio di sopportare una ferita mortale. Posso solo sperare che mi venga risparmiato il peggio.
A distanza di pochi giorni aggiungeva. “Non ho il coraggio, né la forza, né la chiarezza per guardare in faccia i fatti della mia vita.” E uno di questi fatti era:
B. ha per me un pre-amore, qualcosa che non può tenere. Come appassirà, naturalmente non lo so. Come sia possibile conservarne in vita qualcosa, non appiattito in un libro come un ricordino, anche questo non so.
Aggiornamento • L’ho letto, qui.